RAIMONDO DI SANGRO: IL PRINCIPE DANNATO

Nonostante sia morto da oltre due secoli ancora oggi a Napoli è una delle figure più leggendarie e misteriose Raimondo di Sangro Principe di Sansevero ha lasciato dietro di se il ricordo di una specie di stregone, un alchimista diabolico…

PALAZZO SANSEVERO

Nonostante sia morto da oltre due secoli, ancora oggi a Napoli è una delle figure più leggendarie e misteriose, Raimondo di Sangro Principe di Sansevero, ha lasciato dietro di se il ricordo di una specie di stregone, un alchimista diabolico che faceva rapire poveri disperati i cui corpi dovevano servire per i suoi turpi esperimenti, un castrafanciulli senza Dio che nessun potere, neanche quello del re, riusciva a controllare.

Qualcuno arrivò a dire che aveva ucciso sette cardinali, con le cui ossa e pelle avrebbe fatto altrettante orribili seggiole. Ma se il popolino lo temeva e lo diffamava, non è che le classi socialmente più elevate lo stimassero più di tanto. Il principe, infatti, fu anche il primo Gran Maestro della massoneria napoletana e accadde che un giorno, per salvare la sua testa e le sue proprietà , non esitò a tradire tutti i «fratelli» (tra i quali c’era il fior fiore della nobiltà napoletana) denunciandoli al re, per questo il nome di Raimondo di Sangro venne maledetto in tutte le logge europee, e in alcuni casi la sua effigie venne anche pubblicamente bruciata. Insomma, quale primo massone «pentito» della storia italiana, non si fece una bella fama, eppure, se soltanto si scava un po’ sotto la superficie del pregiudizio che si è creato intorno all’immagine del Principe, emerge una ben diversa realtà, è cioè che il Principe di Sansevero non fu soltanto uno dei personaggi più misteriosi e discutibili del Settecento europeo, ma anche una delle menti più brillanti della sua epoca, per molti versi, un uomo troppo moderno per il suo tempo e per questo suo modo di essere pagò il prezzo che il destino gli aveva assegnato.

Ma vediamo un po’ più da vicino chi è questo nobile napoletano, e che cosa ha lasciato per non farsi dimenticare dai posteri: Tanto per cominciare, la famiglia del Principe non era di origine napoletana, discendente direttamente da Carlo Magno attraverso il ramo di Oderisio, conte di Sangro (1093), la famiglia contava una sfilza lunghissima di titoli, tra le altre cose, i di Sangro erano anche Grandi di Spagna ed è appunto in uno di questi feudi, a Torremaggiore, in provincia di Foggia, che Raimondo nacque il 30 gennaio del 1710 da don Antonio di Sangro e Cecilia Caietani d’Aragona, terzo di tre fratelli. La madre morì quando il bambino aveva soltanto un anno, anche i primi due fratelli, Paolo e Francesco, morirono in tenera età. A soli 16 anni, Raimondo ereditò il titolo di Principe di Sansevero, Il padre, sconvolto dalla morte della moglie, non si volle occupare del piccolo e, prima di rinchiudersi in un convento per il resto dei suoi giorni, lo affidò al nonno. Di intelligenza molto vivace, all’età di dieci anni Raimondo venne inviato al Seminario di Roma dove venne affidato ai padri Gesuiti. Solo a vent’anni, con un bagaglio culturale notevolmente superiore a quello solitamente posseduto dai nobili dell’epoca, il giovane riuscì finalmente a tornare nel palazzo dei suoi avi, a Napoli, fregiandosi del titolo di Principe di Sansevero. 

RAIMONDO DI SANGRO PRINCIPE DI SANSEVERO

Di fantasia, il Principe ne aveva da vendere ma non si limitava a mantenerla allo stato teorico, la metteva in pratica concretizzandola in tutte quelle invenzioni che poi lo resero famoso, una per tutte il controverso «lume eterno» che don Raimondo realizzò triturando le ossa di un teschio: ottenne una mistura, probabilmente a base di fosfato di calcio e di fosforo ad alta concentrazione, che aveva la capacità di bruciare
per ore consumando una quantità trascurabile di materia. Il più illustre dei suoi estimatori fu proprio il re Carlo III di Borbone, figlio di Filippo V di Spagna, che a soli 17 anni il 10 maggio 1734 entrò trionfante a Napoli per prendere possesso del Regno delle due Sicilie dopo avere sconfitto gli austriaci. Seppur ancora un ragazzo, il sovrano comprese che doveva circondarsi di persone fidate per familiarizzare con il regno che si era appena conquistato,così , subito dopo le sue nozze con Amalia Walburga di Polonia, istituì l’Ordine cavalleresco di San Gennaro del quale egli si proclamò Gran Maestro. A questo ordine, avrebbero appartenuto solo sessanta blasonati della più antica nobiltà, scelti uno per uno dal re in persona. Il Principe di Sansevero fu uno dei primi a essere chiamato,
Don Raimondo sapeva che il re amava la caccia, allora per ringraziarlo dell’onore che gli aveva concesso, gli fece fabbricare dei mantelli di un tessuto impermeabile di sua invenzione, una novità assoluta per l’epoca, e il sovrano ovviamente, ne restò entusiasta. Ma ben altri erano gli interessi che il Principe covava nella sua mente: Nonostante l’insegnamento religioso che aveva ricevuto dai gesuiti, ben presto il giovane nobile napoletano entrò a far parte della Confraternita segreta dei Rosa-Croce dove venne iniziato agli antichi riti alchemici, la cosiddetta «arte sacra» o «arte regia» che fin dai tempi più remoti i sacerdoti egiziani tramandavano ai propri discepoli. Don Raimondo aveva trovato la sua strada, pur mantenendo il più assoluto silenzio sui «fratelli» e sull’insegnamento che stava ricevendo (non ha lasciato documenti di alcun genere sull’attività della misteriosa setta) il Principe, cambiò radicalmente la propria vita dedicando tutto il suo tempo all’alchimia. Alambicchi, forni e provette riempirono così lo scantinato del suo palazzo e di notte non era raro vedere strani fumi colorati, e sentire odori pestilenziali che fuoriuscivano dalle finestre sbarrate che davano sulla strada. Fu in quel periodo che i napoletani gli appiopparono la nomea di “stregone”. Ma Raimondo di Sangro aveva anche un altro hobby: il bel canto, nonostante conoscesse i piaceri della famiglia e della paternità (aveva sposato Carlotta Caietani d’Aragona, parente di sua madre, e aveva cinque figli: Vincenzo,

Paolo, Gianfrancesco, Carlotta e Rosalia), il Principe si dilettava a girare per i suoi vasti possedimenti in cerca di fanciulli dalla bella voce, di solito li trovava nei cori parrocchiali allora li «comprava» dai genitori (quasi sempre contadini analfabeti senza un soldo ma con tanta prole), li faceva castrare dal suo medico di fiducia, il palermitano don Giuseppe Salerno, e poi li rinchiudeva nel Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, a Napoli, dove i castrati venivano avviati alla carriera di «sopranisti»

La vera ossessione del Principe erano comunque i posteri: Per anni ha pensato a come poteva stupirci, a come poteva entrare nella storia con un ruolo da protagonista ed è nato così quel capolavoro di arte ermetica che è la Cappella di Sansevero, i lavori, che prosciugarono le casse di famiglia e portarono cospicui debiti (tanto da costringere il Principe ad affittare alcune stanze del suo palazzo ad uso di bisca clandestina 

TARGA POSTA FUORI AL PALAZZO SANSEVERO

motivo per cui venne addirittura arrestato e rinchiuso per alcuni mesi nel carcere di Gaeta), resero la piccola chiesa, con i suoi influssi massonici e le sue allegorie, un capolavoro del barocco napoletano cui parteciparono i maggiori nomi dell’arte dell’epoca. Nel 1750, quando la massoneria fece capolino a Napoli, don Raimondo decidesse di farne parte e non stupisce nemmeno che, visto il prestigio di cui godeva, i «fratelli» lo avessero nominato Gran Maestro di tutto il Regno. La suggestione occultistica e alchimistica, introdotta dal filone scozzese nella struttura razionalistica della massoneria di tipo inglese, faceva molta presa sulla nobiltà e sulla borghesia e il Principe seppe sfruttarla tanto bene che ben presto nella sola Napoli si contarono un migliaio di «fratelli» suddivisi in diverse logge.
C’è da dire, però, che i massoni di una volta erano un po’ diversi da quelli odierni: Nel Settecento spesso le logge prendevano il nome delle taverne dove i «liberi muratori» si incontravano per discutere di filosofia, di esoterismo e di politica, alla fine della seduta, si sedevano tutti intorno ad un tavolo e cominciavano a mangiare e bere a sazietà, tanto poi che concludevano la serata cantando a squarciagola. Il fatto che nelle logge si parlasse di eguaglianza e di libero pensiero non poteva non impensierire il Santo Uffizio, e cioè il tribunale dell’Inquisizione, che da tempo cercava senza successo di aprire una sede nel Regno delle due Sicilie. L’iniziativa la prese il pontefice Benedetto XIV, papa Lambertini, che il 15 gennaio 1751 fece sapere all’ambasciatore Carlo III di essere gravemente preoccupato per il diffondersi della massoneria nel Regno e negli stessi ambienti di corte. La missiva del Papa trovò terreno fertile perché anche il re Borbone si era dato da fare per saperne di più su «un’unione senza l’intelligenza ed approvazione del Sovrano» ,inoltre, proprio in quell’anno il miracolo di San Gennaro non si era compiuto e il popolino, aizzato da un certo padre Pepe, aveva dato vita ad un vero e proprio movimento popolare contro i massoni, considerati i responsabili del mancato prodigio.
Per farla breve, il 28 maggio 1751 Benedetto XIV emano la bolla «Providas Romanorum Pontificum» con la quale rinnovò la scomunica della Chiesa verso la massoneria, già espressa tredici anni prima dal suo predecessore Clemente XII.
Ovviamente il più preso di mira da tutta questa agitazione anti-massonica fu proprio il Principe di Sansevero, il quale, però , avendo fiutato il vento, e comprendendo che si stava giocando vita e onori, si era mosso prima che il bubbone scoppiasse: Infatti il Papa non sapeva che fin dal 26 dicembre 1750 don Raimondo si era presentato al re e gli aveva consegnato la lista dei nomi degli affiliati e tutti i documenti relativi alle logge presenti nel regno. Carlo III pubblicò l’editto contro i «liberi muratori» il 2 luglio 1751,Il primo agosto il Principe scriveva al Papa ritrattando la sua fede massonica e mettendosi sotto la sua protezione, così facendo don Raimondo tradì il segreto massonico e salvò la sua testa, ma non solo quella; infatti il re, che non aveva nessuna voglia di mettere in carcere metà della sua

corte, si limitò a impartire una «solenne ammonizione» a tutti i massoni napoletani.
Messo all’indice dalla «fratellanza» internazionale e dagli stessi amici di un tempo, il Principe tornò a occuparsi per altri vent’anni della sua alchimia fino a quando la sera del 22 marzo 1771 la morte lo colse «per malore cagionatogli dai suoi meccanici esperimenti», probabilmente aveva inalato o ingerito qualche sostanza tossica durante le sue lunghe notti nel laboratorio.
Ma c’è un ultimo mistero che Raimondo di Sangro si è portato nella tomba: Nel 1790, di fronte al tribunale romano dell’Inquisizione, il conte di Cagliostro affermò che tutte le sue conoscenze alchemiche gli furono insegnate anni addietro a Napoli da «un principe molto amante della chimica», i giudici non gli vollero credere e non diedero peso alle sue parole, forse il nome di quel principe venne anche pronunciato, ma non lo possiamo sapere visto che tutti gli atti di quel processo furono dichiarati segreti e si trovano ancora oggi sotto chiave da parte della Reverenda Camera Apostolica.
Del processo di Cagliostro, che si concluse con la condanna e l’internamento dell’imputato nella rocca di San Leo, ci è rimasto solo un compendio fatto ad uso e consumo dell’Inquisizione. Chissà, se solo il Vaticano volesse, forse si potrebbe scoprire che quel geniaccio di Raimondo di Sangro fu anche il maestro del ben più noto Cagliostro, ma questa pagina di storia è ancora tutta da scrivere…

CAPPELLA SANSEVERO

 

 

 

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Le immagini senza Watermark sono state reperite in internet

 

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